di Alberto Ciafardoni (RM)

Ci si è mai davvero chiesti il perché della sperimentazione? Il perché della ricerca di nuovi suoni? Il perché della ricerca di tecniche che cambiassero la consueta pratica musicale?Sarebbe un po’ presuntuoso il cercare di rispondere a queste domande nelle poche pagine di questo articolo e infatti non lo faremo. Qui si parlerà di una pratica in particolare, la xenocronia, cercando di contestualizzarla e di comprenderne la natura, anche nel suo significato più generalizzato di tecnica.

Piccola digressione storica

Lo “straniamento” è una tecnica utilizzata per elaborare una forma artistica con i fini di deformare la percezione che il fruitore ha dell’opera (la dimensione estetica). In un certo senso, è uno dei prodotti più caratteristici di quel modo di pensare “postmoderno” che nel ‘900 ha segnato diverse generazioni artistiche e di cui ancora paghiamo le derive. L’artista postmoderno, nell’utilizzare tecniche di alienazione, proponeva un modo di distaccarsi dalla realtà, evidenziava la sfiducia nel linguaggio artistico e trovava nello straniamento un modo di deriderlo.

 

Limitandoci al mondo della musica, vediamo come il ‘900 sia stato caratterizzato da una rincorsa continua al “nuovo straniamento” che potesse alienarsi anche dal vecchio, come se l’artista corresse a perdifiato in un’incisione di Escher. In questo senso possiamo citare in ordine sparso le varie teorie che hanno formato diversi modi di concepire la musica con un senso straniante: il serialismo, il minimalismo, la dodecafonia, il rumorismo, la musica concreta…si potrebbe andare avanti ed elencare le teorie più disparate, ma queste sono più che sufficienti. Lo scopo di queste è, in maniera evidente, la formazione di nuovi panorami sonori, nuove tecniche compositive che rielaborassero la formula musicale in un oggetto totalmente diverso da come era arrivata agli inizi del ‘900. L’utilizzo di soluzioni armoniche atonali, così come di registrazioni di paesaggi sonori o anche semplicemente di rumori prodotti nei modi più diversi, sono tutte tecniche di deformazione della percezione musicale: la musica divarica il suo significato dai concetti di di melodia/armonia, rapporti fra note di una certa frequenza. La musica diventa tuttoIn questo senso, il materiale musicale diventa anche un gioco di combinazioni. Questa intuizione è evidente nel lavoro di Charles Ives, compositore americano rimasto nell’ombra fino alla sua morte, avvenuta nel 1954 a ottant’anni, sebbene il valore della sua opera sia stato riconosciuto da personaggi del calibro di Gustav Mahler.

Charles Ives si dedica ad una sperimentazione molto interessante: ante-litteram tenta delle soluzioni atonali, dal sapore dodecafonico o armonie chiaramente estranee alla tradizione musicale classica, esplora il mondo dei quarti tonali e sperimenta orchestre assemblate in maniera decisamente insolita e da far suonare in maniera altrettanto insolita, utilizzando creativamente lo spazio dei luoghi in cui si tenevano i suoi concerti posizionando alcuni elementi sulla scena, altri dietro il pubblico e così via. Senza indagare ogni sua particolarità (una buona ricerca su internet, per chi non lo conoscesse, è consigliatissima per approfondire ed ascoltare il suo lavoro), indugiamo, però, su un altro suo modus operandi molto interessante, di cui si può leggere in maniera più approfondita nel libro Contemporary Poetics, una raccolta di saggi di cui citeremo quello scritto da Michel Delville e Andrew Norris dal titolo Frank Zappa, Captain Beefheart and The Secret History of Maximalism: in questo saggio si cita l’utilizzo, da parte di Zappa, di tecniche di “collisione musicale” ereditate da Ives per dare l’illusione come di “bande musicali che arrivassero da diverse direzioni nel centro di un paese suonando musiche diverse” [leggasi più in basso per la citazione esatta]; questa tecnica (che in Ives si esplica tramite l’utilizzo di polimetria, politonalità e multitemporalità) è diversamente concepita e sfruttata da Zappa, che conia per essa il termine xenocronia, inteso come “sincronismo altro, diverso” (in inglese lui lo traduce, più semplicemente, come “strange synchronizations“) .

La xenocronìa in Zappa

Zappa non era sicuramente la quint’essenza della modestia e, a dirla tutta, neanche della chiarezza teorica, sebbene la sua opera abbia un’importanza indiscutibile. Difatti, le poche parole che dedica per chiarire il concetto di xenocronia (di cui vanta la paternità in maniera decisamente poco velata) spiegano forse meno di quanto non lo faccia l’ascoltare i suoi brani xenocroni.

A classic “Xenochrony” piece would be “Rubber Shirt”, which is a song on the Sheyk Yerbouti album. It takes a drum set part that was added to a song at one tempo. The drummer was instructed to play along with this one particular thing in a certain time signature, eleven-four, and that drum set part was extracted like a little piece of DNA from that master tape and put over here into this little cubicle. And then the bass part, which was designed to play along with another song at another speed, another rate in another time signature, four-four, that was removed from that master tape and put over here, and then the two were sandwiched together. And so the musical result is the result of two musicians, who were never in the same room at the same time, playing at two different rates in two different moods for two different purposes, when blended together, yielding a third result which is musical and synchronizes in a strange way. That’s Xenochrony. And I’ve done that on a number of tracks.”  (http://www.science.uva.nl/~robbert/zappa/interviews/Bob_Marshall/index.html ; parte 7.)

 

Da queste parole, il concetto di “xenocronia” rimane abbastanza nebuloso, anche se è possibile tracciarne delle linee guida. Innanzitutto, è bene considerare come, in questa definizione, rientri anche l’utilizzo di sovraincisioni di assoli presi da esecuzioni live su materiale registrato in studio (facciamo questo esempio, visto che rientra nella tipologia più sfruttata dal compositore sin dal 1975 per l’album One Size Fits All), aumentando la confusione. Il concetto di xenocronia, come già citato, trova i suoi fondamenti negli studi di Charles Ives , autore molto apprezzato da Zappa, come si capisce da quanto scrive nella sua autobiografia:

On Absolutely Free, our second album. There’s a twisted reference to Charles Ives at the end of Call Any Vegetable. One of the things that Ives is noted for is his use of multiple colliding themes — the musical illusion of several marching bands marching through each other. In our low-rent version, the band splits into three parts, playing “The Star-Spangled Banner,” “God Bless America” and “America the Beautiful” all at the same time, yielding an amateur version of an Ives collision. Unless listeners pay attention in that one spot, there are only a few bars of it, they might think it was a “mistake”[corsivi nostri].”

Si deduce che Zappa conoscesse le idee su poliritmia, multitemporalità e polimetria sfruttate da Ives, avendo peraltro applicato questi concetti già prima del 1975, sebbene affrontandoli singolarmente. Il passo in avanti che Zappa aveva progettato era quello di combinare simultaneamente le idee di poliritmia, polimetria, multitemporalità e sovraincisione per ottenere risultati non riproducibili altrimenti. Ecco, quindi, che la possibilità di impiegare e combinare tracce audio diventa il modo nuovo di creare quell’alienazione ricercata anche da Ives. “Rubber Shirt” diventa l’esempio più calzante di come Zappa utilizzasse la registrazione multitraccia come modalità compositivo-esecutiva, oltrepassando le sperimentazioni già intraprese con le Mothers of Invention di cui nella citazione precedente. In Jazz from Hell del 1986 l’aiuto del computer contribuisce alla creazione di un album che è totalmente altro, a livello sonoro e compositivo, dal resto della sua produzione, sfruttando anche tutti quei concetti mutuati da Ives per creare quello straniamento xenocrono che sperimentava da ormai vent’anni.

Difatti, però, non c’è una reale chiarificazione del concetto di xenocronia, tanto che possiamo comprendere in essa, come già detto, dal “semplice” mixaggio di temi o assoli su basi armonicamente differenti, al lavoro più complesso di scrittura, esecuzione ed assemblaggio di parti totalmente diverse (vd. “Rubber Shirt”). Il rischio che corre tale concetto è quello di venire ricondotto a tutto ciò che riguarda le moderne pratiche di mixaggio, sottovalutando l’apporto delle idee ivesiane citate in precedenza. Del resto, si potrebbe anche discutere di applicazioni che sembrerebbero xenocrone: ad esempio, il primo Steve Reich che lavorava sugli sfasamenti metrici, concettualmente, va in quella direzione, pur senza aver mai citato il termine di origine zappiana. Di contro, fare un elenco di tali possibili applicazioni potrebbe ridursi a mero esercizio elencativo, costringendoci peraltro a evidenziare tutte le sottili differenze presenti caso per caso.

In ultima analisi, potremmo definire la xenocronia come una tecnica di straniamento musicale volta a produrre continuità dal discontinuo, pur volendolo fortemente sottolineare; il “sincronismo altro” è un modo di ridicolizzare il formalismo musicale per dimostrare che due parti totalmente estranee l’una dall’altra per tempo, tonalità e metro possono suonare insieme e produrre musica, rientrando a pieno titolo in quella categoria di pensiero definito “postmoderno” che l’arte ancora fatica a superare. Forse, ci verrebbe da dire, il senso della sperimentazione del nuovo millennio è tutto in questo passaggio.